Festival di Woodstock, cinquant’anni fa l’evento mito del rock
di Ugo Cirilli
Nel 1969, tra il 15 e il 18 agosto, ebbe luogo un evento destinato a lasciare un segno indelebile nella storia della musica: il Festival di Woodstock, il cui nome originale era “Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock”.
Ospitato da una cittadina rurale americana, Bethel, sorprese gli stessi organizzatori per il travolgente successo di pubblico, con più di 400.000 spettatori. Scopriamo come nacque il leggendario festival e quanto complessa si rivelò la sua organizzazione.
Una strada piena di ostacoli
Le menti che idearono l’evento furono Michael Lang, John P. Roberts, Joel Rosenman e Artie Kornfeld, appassionati di musica che desideravano investire in un progetto comune all’insegna delle sette note.
Inizialmente, unirono le forze e le finanze con l’intento di realizzare uno studio di registrazione nella tranquilla località di Woodstock; un’idea che si trasformò poi nella volontà di creare un vero e proprio festival.
Il percorso verso la grande kermesse rock fu pieno di ostacoli. Affittato un terreno di 1,2 km quadrati nella contea di Orange, una legge emanata pochi mesi dopo impose all’ organizzazione l’obbligo di un permesso speciale, a causa dell’afflusso di spettatori previsto. Successivamente, le autorità vietarono l’evento ritenendo i servizi sanitari inadeguati.
A salvare la situazione fu l’incontro dei quattro ideatori con Elliot Tiber, il proprietario di un motel nella cittadina di Bethel, l’”El Monaco” sul White Lake.
Tiber si offrì di accogliere il Festival in una tenuta di sua proprietà, rendendosi però conto che lo spazio sarebbe stato insufficiente. Allora presentò agli impresari l’allevatore Max Yasgur, che affittò loro 2,4 km quadrati di terreno per 75.000 dollari. Con altri 25.000 dollari vennero affittati alcuni spazi confinanti, per affrontare ogni evenienza. Il motel di Tiber rimase comunque il centro strategico dell’organizzazione e il punto d’appoggio per vari artisti.
Tutto era pronto nella speranza che il Festival di Woodstock si rivelasse un successo, visti gli investimenti che aveva richiesto.
Tre giorni infuocati
Dalle icone folk come Joan Baez e Richie Havens alle star del rock sixties, quali Jimi Hendrix, Janis Joplin, The Who e i Grateful Dead, Woodstock seppe incarnare tutti i palpiti passionali e inquieti della musica del periodo, in un trionfo di pubblico che superò le più rosee aspettative.
Certo, non mancarono i momenti di caos: l’afflusso imprevisto indusse l’organizzazione, a un certo punto, a permettere l’ingresso libero, nonostante un gran numero di biglietti fosse stato già acquistato in prevendita. Perfino il traffico autostradale della zona andò in tilt, con alcune “highway” bloccate.
Il consumo smodato di droga tra i giovani spettatori rappresentò un grande pericolo, considerando anche che alcuni di loro si tuffarono nelle acque di uno stagno vicino al palco. Due persone morirono, una probabilmente per overdose, un’altra invece investita da un trattore.
Non avvenne però il disastro totale che alcuni media avevano immaginato. Lo stesso proprietario del terreno principale, Max Yasgur, si sorprese osservando quanto, in quelle condizioni di esaltazione e apparente sfrenatezza, i partecipanti avessero stabilito un clima di concordia. Rimase colpito dagli ideali “Peace and Love” del movimento hippy, che gli apparvero una soluzione ai problemi dell’America di allora.
Così, di Woodstock oggi si ricordano soprattutto alcuni momenti live rimasti impressi nella storica della musica.
Quando lo show è imprevedibile
Durante la sua esibizione, Jimi Hendrix sorprese il pubblico suonando l’inno nazionale USA. La sua versione per chitarra elettrica di “The Star-Spangled Banner”, distorta e con inquietanti effetti che sembravano esplosioni, suonò come una protesta contro la guerra in Vietnam. Purtroppo buona parte degli spettatori si perse il live della rockstar, che ebbe inizio alle nove di mattina di lunedì; in tanti erano già tornati al lavoro e alle occupazioni abituali.
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Richie Havens colpì con un’improvvisazione chiamata “Freedom”, quasi tutta strumentale a parte la ripetizione di quell’unica parola. Ebbe tale idea perché, esaurito il repertorio e concessi vari “bis”, il pubblico continuava a chiedergli di prolungare la performance.
Mentre i The Who eseguivano “See me, feel me”, band e spettatori poterono godere di una scenografia naturale mozzafiato: il cielo che iniziava ad accendersi con i colori dell’alba (avevano iniziato a suonare alle quattro circa del mattino).
Questi e tanti altri momenti di emozioni live, con canzoni che sarebbero diventate veri classici, hanno trasformato un festival nato tra mille difficoltà in una pietra miliare della storia della musica.
Capita, oggi, di sentir usare espressioni tipo “Una Woodstock dei nostri giorni”, quando si parla di grandi eventi musicali. Ma è difficile ricreare l’aura mitica di un festival in cui si incontrarono note d’autore e utopie, caos e ricerca di un’armonia superiore.